Bachelorarbeit, 2015
55 Seiten, Note: 110/110 cum laude
1 INTRODUZIONE
1.1 Premessa
1.2 Status quaestionis
1.3 Struttura della lettera secondo divisione tematica
2 CONTENUTO E COMMENTO TEMATICO
2.1 Una consolatio sui generis
2.1.1 L’episodio
2.1.2 Marcellino I: un ragazzo ‘difficile’
2.1.3 Marcellino II: un prematuro exitus stoico
2.1.2 Una consolatio senza specifico destinatario
2.1.2.1 Atipicità del caso
2.1.2.2 Perché una consolatio ?
2.2 Escatologia senecana e meditatio mortis
2.3 L’importanza del self nella produzione senecana
2.4 Vita e teatro: rappresentazione della vita e vita come rappresentazione
3 ANALISI STILISTICA DEL TESTO
3.1 Testo: Sen. epist. 77, 11-13; 19-20
3.2 Traduzione
3.3 Analisi stilistica
3.3.1 §11 Nemo tam inperitus
3.3.2 §12 In hoc punctum coniectus es
3.3.3 §13 Quantus te populus moritorum sequetur
3.3.4 §19 ‘Sed ego’ inquit ‘uiuere uolo’
3.3.5 §20 Nulla uita est non breuis
BIBLIOGRAFIA
Il presente lavoro ha lo scopo di proporre un possibile saggio d’indagine su uno degli aspetti fondamentali del pensiero filosofico senecano: la ricerca meditativa e la rappresentazione letteraria del self, dell’interiorità, oggetto di recente interesse da parte della critica letteraria. Lo studio parte dall’analisi, condotta da un punto di vista stilistico, linguistico e contenutistico, dei §§11-13 e §§19-20 dell’ epist. 77. Qui l’impostazione consolatoria della lettera filosofica permette a Seneca l’elaborazione di un’escatologia che, benché non sistematica, secondo l’uso del Cordovese, mira a demistificare il metus mortis, servendosi dell’indefinita figura di un proficiens imperitus restio a mettere in pratica gli insegnamenti del maestro1. Il ragionamento prende le mosse dal racconto di un episodio esemplare: il suicidio del giovane Marcellino, che ha posto fine alla propria vita per scampare ad una penosa malattia. L’ exemplum diviene, dunque, lo spunto ideale per condurre una vera e propria consolatio (retorica e filosofica) che, tuttavia, tolto quello immediato (Lucilio) manca di un destinatario ben individuato. Il focus non è tanto sulla morte (volontaria) del giovanetto quanto una più generale tanatologia che sembra avere un intento quasi terapeutico, con il monito continuo a vivere il presente. L’immancabile afflato stoico che permea la lettera, attinto dal caro schema della öiaipißq stoico-cinica, lega inscindibilmente il destino individuale all’ anima mundi universale, secondo un Mr/op provvidenziale. Il tutto porta, ad un livello etico, ad una riconsiderazione della morte, vista come necessità ineluttabile ma, al contempo, ennesima prova di stoica fermezza ed adempimento al munus. In un’ottica di tal fatta, dal sapore quasi ‘esistenzialista’, la morte viene considerata momento fondamentale della vita, in quanto conferisce senso all’intera esistenza che si è vissuta, sigillandola sotto il segno della sapientia. La vita, per dirsi veramente plena, deve essere suggellata da una degna conclusione, proprio come avviene con le rappresentazioni teatrali. È qui, in chiusura dell’epistola, che si inserisce l’ultima potente resa letteraria del self, il cui spazio è paragonato a quello di un palcoscenico. Rendendo saldo il binomio vita-arte, oltre a concretizzare l’immagine dell’interiorità, Seneca realizza una delle operazioni più ‘metaletterarie’ del suo corpus e non. Quomodo fabula, sic uita. Se la vita, valutata secondo la qualità e non la durata, è come l’arte (e viceversa), non solo si afferma una ‘finzione ontologica dell’essere’, vicina a quella di Calderón de la Barca ne La vida es sueno, ma, d’altro canto, si esplicita anche la riflessione che la letteratura opera di se stessa.
Afferma Inwood, «the erosion of the boundary between the real and the fictive or between more or less authentic constructions has long also been a source of moral and existential anxiety»2. Tutto è finzione (vita e letteratura compresa); teatrale è la lettera tutta; Seneca (drammaturgo-filosofo) rende letteraria, filosofeggiando, la vita stessa e la sua essenza più intima.
La critica ha dato solo in tempi molto recenti il giusto risalto all’importanza rivestita dall’investigazione del self nel corpus senecano, ivi compresa la sua riuscita (auto)rappresentazione letteraria. I più eminenti studi in materia sono rappresentati dal volume a cura di Bartsch e Wray3, di cui si sottolinea l’articolo di Gill4, e ripresi dal capitolo della stessa Bartsch5 nel recentissimo The Cambridge Companion to Seneca e gli interessantissimi articoli di Edwards6 e Ficca7. Sullo stile consolatorio, da citare i contributi di Traina8 e Ficca9 10 11 12 13 14. Sulla drammaticità dello stile delle epistole senecane da ricordare ancora Traina , Armisen-Marchetti , Mazzoli , Grimal e Setaioli . Per il tema del suicidio e dell’anticipazione della morte si vedano, in particolare, gli studi di Ronconi15, Motto16, Vegetti17, van Hoof18 e Pasetti19. Per una migliore comprensione del mondo senecano essenziale è il volume a cura di Volk e Williams20.
Quanto ai commenti filologici e linguistici dell’epistolario senecano, non si può fare a meno di notare come manchi un’edizione completa che ne copra l’intero spettro. La più valida selezione rimane quella del Summers18 19 2021, punto di partenza essenziale per il presente elaborato. Congiuntamente, ci si è serviti dell’edizione critica oxionense a cura di Reynolds22. Tra gli studi su specifiche epistole spiccano quelli di Scarpat sull’ epist. 6523 e 7024. Sui Dialogi, tra tutti, gli studi di Grimal, sul De constantia sapientis 25, De breuitate uitae 26 e De uita beata 27, e di Dionigi sul De otio 28. Per i raffronti con gli autori greci dei passi senecani l’opera di riferimento è di Setaioli29.
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L’epistola ha una struttura piuttosto semplice e lineare. Chiara pare la divisione tra una prima parte più narrativa (§1-9) ed una più propriamente filosofica (§11-20), come tipico nella diatriba cinico-stoica. Il §10 funge da connettore delle due sezioni, attraverso un’ingegnosa praeteritio (in fabellam excessi non ingratam tibi). Interessante è notare come tutta la lettera sembri ricalcare un’impostazione quasi teatrale: dalla pittoresca immagine poetica delle navi foriere del messaggio allo stesso Seneca che, stanco delle cose del mondo, entra in scena ‘rappresentando se stesso’ per raccontare il suicidio di Marcellino all’amico Lucilio. La stessa impostazione ritorna, d’effetto, alla fine del brano, dopo la lunga parenesi filosofica, attraverso la potente metafora della vita come fabula. La riflessione che ne segue sull’analogia tra fine della vita e fine dell’opera ha indubbiamente una forte valenza metaletteraria. Di qui una delle possibili chiavi di interpretazioni di tutto il testo: una rappresentazione teatrale tout court, intrisa (come sempre in Seneca) di riflessione morale e filosofica, dove ad essere rappresentata è la vita stessa (quella reale!). In tal senso strabiliante sarebbe la letterarietà e la meta-riflessione del testo.
La presente trattazione inizia con l’analisi del genere letterario cui il testo in questione appartiene. Formalmente quella presa in esame è a tutti gli effetti un’epistola filosofica, genere inaugurato, in Grecia, oltre che da Platone, dallo stesso Epicuro, cui Seneca chiaramente dichiara di rifarsi30 e del quale apprezza indubbiamente lo stile31. A Roma lo stesso era stato trapiantato da Cicerone, dal quale tuttavia Seneca si distacca, rimproverando il carattere contingente e troppo legato agli affari politici dell’Arpinate32, rispetto a quello moraleggiante proprio del Cordovese. Tuttavia, appare sorprendente, in un tale contesto, quanto la nostra epistola abbia di afferente alla consolatio (il napauuOqTiKop Aopop dei Greci), proprio come aveva fatto Cicerone in una delle sue Familiares 33. In effetti, l’ epist. 77 sembra rispondere in più punti ai canoni del genus consolatorio, a partire dall’occasione stessa da cui muove salvo poi rivelare la propria straordinaria eccezionalità che la rende un testo particolare e a sé stante.
Tutto prende le mosse dall’episodio del suicidio del giovane Marcellino, preso come efficacissimo exemplum di exitus glorioso, al tempo stesso oggetto di una illacrimata consolatio e pretesto per la trattazione della concezione escatologica senecana. Di Marcellino, che deve la sua fama proprio allo stesso Seneca, sappiamo ben poco: le uniche informazioni che si possono ricavare sono contenute, oltre che nella presente lettera, in epist. 29. Qui il filosofo ragguaglia Lucilio sulla condotta di un amico comune, Marcellino appunto. Seneca redarguisce il ragazzo, che ormai lo frequenta raramente non ulla alia ex causa quam quod audire uerum timet (§1). Ma non ce n’è motivo: se Marcellino non è disposto ad ascoltare gli insegnamenti del maestro, non sarà certo questi a dispensare, come invece facevano gli Stoici, consigli a chi si rivela sordo ad ogni tentativo di elevazione. Questo non per una superba altezzosità del sapiens, quanto per non correre il rischio di una perdita di efficacia e credibilità del messaggio stoico che, se non svilito, potrebbe giovare ad altri (ad esempio il Basso di epist. 30). Ad ogni modo, la situazione di Marcellino non è disperata: etiamnunc seruari potest, sed si cito illi manus porrigitur (§4). A porgergli la mano si offrirà lo stesso Seneca, pur consapevole del pericolo di essere anch’egli trascinato giù perché magna in illo ingeni uis est, sed iam tendentis in prauum (ibid.). Ma il Cordovese già prevede l’esito di questo sforzo: il ragazzo farà come al solito ed userà le sue arguzie suscitando il riso, prendendosi gioco di se stesso e poi dell’amico filosofo, insieme a tutti gli exempla di saggi che Seneca gli porrà di fronte. Ma egli è disposto a correre il rischio, se pure servisse a qualcosa: lo farà forse piangere ma, se anche questo non sortisse effetto alcuno, si convincerà che illi genus insaniae hilare contigerit (§7). Tuttavia questo non durerà a lungo: presto infatti si passa dall’ acerrime ridere all’ acerrime rabere (ibid.). Seneca, comunque, non si darà per vinto e tenterà di mostrargli i suoi vizi, mostrandogli quanto pluris fuerit cum multis minoris uideretur (§8), motivo quello del desiderio di stima della folla che tornerà anche successivamente (infra.). Impossibile stroncarli del tutto, ma, quantomeno, proverà a limitarli, sperando che i periodi di interruzione dal vizio, ormai simile ad un morbo letale, diventino costanti. Lucilio, invece, sembra uscito da una situazione piuttosto simile ed è a lui che Seneca riserva le sue migliori speranze e gli ammonimenti ad un’autostima più salda rispetto ad una presunta popolarità.
Sebbene l’identificazione del Marcellino di epist. 29 con quello della 77 non possa essere stabilita con assoluta certezza34, è innegabile che molte siano le affinità tra le due descrizioni e coerente la delineazione del carattere del giovane. In epist. 77 il giovane Tullio Marcellino, che Lucilio ben conosceva35, viene dipinto come un adulescens quietus et cito senex, morbo et non insanabili correptus, sed longo et molesto et multa imperante (§5). Quale sia questa malattia che, pur non mortale, sembra essere penosa al punto di richiedere numerose cure ed una lunga degenza non è chiaro. Lo stesso Seneca non si sofferma più in dettaglio ma ad incuriosire è il brevissimo ma icastico sintagma cito senex (in chiaro contrasto con la giovane età di cui immediatamente prima). Benché pochi siano gli elementi a cui appigliarsi, meno probabile pare essere l’ipotesi di un invecchiamento precocissimo dal punto di vista corporale, a meno che la malattia non abbia consunto il corpo del giovane ad un punto tale da sortire gli stessi effetti della vecchiaia. Migliore, invece, sembra l’ipotesi di una malattia psicologica36 (al limite psicosomatica), quasi una neurastenia che ben si addirebbe a quel genus insaniae hilare di epist. 29. In quest’ottica Marcellino avrebbe iniziato a pensare al suicidio a causa di una sorta di depressione giovanile e una prova di questo può essere letta nel consiglio dell’ amicus... Stoicus (§6), che suffraga la decisione del giovane facendogli notare come cosa da tutti sia essere in vita, godendo sempre degli stessi piaceri, ma è proprio del saggio morire stoicamente, con saggezza e coraggio. Ed è qui che sorge un accenno velato forse alla situazione del ragazzo: mori uelle non tantum prudens aut fortis aut miser, etiam fastidiosus potest (§6). Marcellino sarebbe dunque fastidiosus, uno che ha ormai nausea della vita37 e proprio questo, verosimilmente l’avrebbe spinto al gesto estremo. Ma non c’è alcuna istigazione al suicidio: non opus erat suasore illi sed adiutore (§7). Di fronte ad amici che, per compiacenza o viltà, consigliavano rispettivamente di coronare o meno il proprio proposito, l’aiuto dello Stoico offre al giovane la dissipazione di ogni dubbio, unitamente al conforto degli schiavi affinché adempissero ai voleri del padrone.
Il racconto dell’ exitus appare piuttosto conciso e blando: senza bisogno di versare sangue, Marcellino si lascia serenamente morire di fame, indebolendo le membra immergendosi in una tinozza di acqua calda, fino all’arrivo della morte, che lo coglie dopo tre giorni senza trauma alcuno. Anzi, egli dichiara, durante il trapasso, di morire non sine quadam uoluptate (§9), proprio come quella già sperimentata dallo stesso Seneca nei suoi frequenti deliqui.
Indubbiamente la lettera riveste il ruolo delicato e particolare dell’annuncio della morte di un amico comune a Lucilio. Tuttavia, trascendendo dalla situazione contingente, vale la pena considerare come la narrazione venga introdotta per poi essere presa come punto di partenza per una profonda argomentazione filosofica, di stampo consolatorio.
L’evento viene presentato quasi ex abrupto, benché indirettamente preparato dai quattro paragrafi iniziali: Seneca, dicendosi ormai indifferente verso le ricchezze mondane, afferma di avere imboccato una uiam ... quam peragere non est necesse (§4), perché se una vita è onesta ubicumque desines, si bene desines, tota est (ibid.). Ed è qui che si inserisce l’ exemplum di Marcellino, a suffragare quanto detto. La metafora della vita come viaggio tornerà, in Ringkomposition, proprio alla fine della sezione filosofica tout court (§13) che analizza il fatto.
Terminato il racconto, Seneca introduce il proprio pensiero tanatologico, mantenendo, da buono stoico, un’apatica indifferenza per quanto avvenuto (in fabellam excessi non ingratam tibi; exitum enim amici tui cognosces non difficilem nec miserum, §10). Quasi nulla di eclatante fosse accaduto, perché, come ricordava l’amico stoico al ragazzo, non occorre torqueri tamquam de re magna deliberes. non est res magna uiuere (§6).
Come ben sottolineato dal Summers38, il napauuOqiiKò^ Aópop, caro a molti filosofi, ha chiare ascendenze negli énvra^ioi Aópoi dei retori39, seguendo uno schema comune abbastanza prefissato. Esso consisteva principalmente nell’esposizione del caso contingente, per poi passare alla sezione più propriamente precettistica (che include TÓnoi del calibro ‘tutti debbono morire’, ‘non c’è bisogno di affliggersi per la dipartita di un caro o al pensiero della propria’ e ‘il tempo sistema le cose’), suffragata da illustri exempla di stoica sopportazione. Come ben sottolinea Schafer40,
«On Seneca’s own theory, expounded at great length in two programmatic letters (94 and 95, the longest in the collection) on method in philosophical instruction, inculcating virtue requires the teaching both of philosophical doctrines (decreta) and individual commands or instructions (praecepta), under which are subsumed exhortation, consolation, and related techniques of spiritual guidance».
Indubbiamente la presente lettera rientra a pieno titolo nel canone del genus consolatorio; eppure, sembra difficile non notare quanto atipica essa sia rispetto ad ogni altra regolare consolazione. Innanzitutto il contesto in cui è inserita ed il destinatario a cui è indirizzata: solitamente, infatti, la consolatio serve a confortare un congiunto per la morte (per lo più improvvisa e prematura e quasi sempre naturale) di un caro, qui, invece sembra volta a redarguire (quasi fosse un’ obiurgatio)41, un lettore dai connotati piuttosto incerti della morte di un giovane che si è volontariamente tolto la vita. Benché formalmente Lucilio sia il diretto destinatario della lettera, occorre ricordare che l’intero epistolario (filosofico) senecano, più che ad una lettura privata, tipica della corrispondenza, mira ad un pubblico più vasto, essendo concepito, senza ombra di dubbio, ai fini di una pubblicazione. In tal senso, l’episodio di Marcellino servirebbe, ad un livello più universale, come pretesto per instaurare un discorso squisitamente stoico su come affrontare coraggiosamente la morte. Spesso l’ epist. 77 è stata vista come una dichiarazione in favore della liceità del suicidio da parte di Seneca. Eppure, non mancano contraddizioni proprio all’interno del testo. Quella che più risalta all’occhio è contenuta nella sezione filosofica da noi presa in esame: Seneca, lontano dal voler blandire i propri lettori, e quasi biasimandone stoicamente42 un’eventuale atteggiamento di viltà (nemo tam inperitus §11), sembra più arringare contro l’insensata paura umana della morte che potrebbe spingere al suicidio. In §11-13, poi, non si fa cenno alcuno al suicidio né, tantomeno all’episodio del giovane: pare quasi che il filosofo voglia consolare (se stesso o gli uomini in genere) dell’ineluttabilità della morte attraverso una consolatio / obiurgatio. Marcellino, aveva detto Seneca, avrebbe potuto continuare a vivere, poiché la malattia, benché dura, era curabile: egli ha liberamente scelto di ‘anticipare la morte’ piuttosto che attenderla, per utilizzare le parole di Scarpat43. Che sia forse proprio la paura della morte che ha spinto Marcellino a togliersi la vita e per questo Seneca abbia scelto di sottolinearne ancora una volta l’insensatezza44 ? Tale spiegazione sarebbe però in contraddizione con l’etica stoica, che predica una apatica sopportazione del dolore, a meno che non sia mortale. Da questo punto di vista Marcellino non sarebbe un buon esempio di exitus stoico perché, come ben delineato da Diogene Laerzio, la dottrina stoica prevede il suicidio solo Kai ünèp naTpiöog Kai ünèp cpiAciv, Kav èv GK^npoTépa Y;;vqiai à^n^óvi i'i nnpróosoiv i'i vóooig àviaTOig45. Eppure, pur non essendo la malattia incurabile, Seneca erge comunque il giovanetto a modello di exemplum di mors opportuna. Siffatte incongruenze non sono nuove al pensiero senecano che, a causa del carattere non sistematico, vede al proprio interno concezioni anche contrastanti riguardo alla liceità o meno del suicidio. Basti pensare allo scarto tra la posizione iniziale di epist. 70:
quae, ut scis, non semper retinenda est; non enim uiuere bonum est, sed bene uiuere. itaque sapiens uiuet quantum debet, non quantum potest. [...] cogitat semper qualia uita, non quanta sit [...] sed cum primum illi coepit suspecta esse fortuna, diligenter circumspicit numquid illic desinendum sit (§1), e quella finale, sempre nella stessa epistola: stultitia est timore mortis mori: uenit qui occidat, exspecta. quid occupas? quare suscipis alienae crudelitatis procurationem? utrum inuides carnifici tuo an parcis? (§8)46.
Le argomentazioni addotte nella nostra epistola a favore del suicidio e contro la paura della morte sono piuttosto semplici: dato che la vita è vissuta appieno solo se virtuosa (non essendo valide motivazioni i ripetitivi e vani piaceri mondani), si può (e deve) ricorrere alla morte volontaria se e quando la ‘Fortuna’ ne infici la bontà. Marcellino sarebbe allora nel giusto solo se la propria malattia avesse realmente impedito una condotta di vita improntata alla virtù. A quanto pare, Seneca sembra pensarla così, se lo paragona ad un altro giovanetto che decide lo stesso per evitare la schiavitù: in tal caso, la morte apparirebbe come porta di salvezza verso una libertas da preservare ad ogni costo47.
Eppure rimane un problema fondamentale: perché inserire una consolatio contro la paura della morte in un caso di suicidio? A mio avviso, la sezione §11-13 potrebbe rappresentare, al tempo stesso, una proiezione inconscia delle paure dell’uomo-Seneca (nascoste da una strabiliante ma apparente indifferenza verso l’accaduto) ed una rassicurazione al lettore-Lucilio circa la maggiore delle preoccupazioni umane. D’altronde, secondo lo stesso Cordovese, la vita (e con essa la filosofia) non è altro che un ‘imparare a morire’: uiuere tota uita discendum est et, quod magis fortasse miraberis, tota uita discendum est mori 48 . Seneca, quasi sfumando, come afferma Ker, i confini tra dipartito, consolato e consolatore49, tenta un approccio terapeutico, positivo, con cui si propone di spronare il consolato a superare l’attuale dolore per trarne la spinta a vivere intensamente la vita. E per ottenere tale scopo, il filosofo non esita a ricorrere, da una parte, a tutta la sua perizia retorica per la causa contingente, dall’altra al proprio bagaglio di conoscenze filosofiche e letterarie per supportare ed universalizzare il proprio discorso:
«But although at one level this rhetoric of occasion (or of persona) is only significant to the extent that it accomplishes the basic therapeutic goal of ending a given person's grief more quickly, at another level the therapy comes to be mediated through cultural and literary representations with their own tales to tell, thereby amplifying the therapy's signifying potential. Consolation explains that the “everyone dies” argument “offers you an opportunity for giving narratives (öinYHP-aTa)”—for example, tales of heroes»50.
Per usare le parole del Manning, «By their very nature consolations are a response to the situation in which an individual finds himself, and in dealing with Aunq, that stubborn emotion, the good physician of the soul (i.e. Seneca) was surely likely to have a flexible approach in order best to deal with that situation. [...] In writing his consolationes Seneca had the benefit of a considerable number of remedies on which to draw, remedies dealing with various classes of misfortune which men meet on life's journey, but perhaps especially treating that aegritudo which arises from the loss of a loved one»51.
«By their very nature consolations are a response to the situation in which an individual finds himself, and in dealing with Aunq, that stubborn emotion, the good physician of the soul (i.e. Seneca) was surely likely to have a flexible approach in order best to deal with that situation. [...] In writing his consolationes Seneca had the benefit of a considerable number of remedies on which to draw, remedies dealing with various classes of misfortune which men meet on life's journey, but perhaps especially treating that aegritudo which arises from the loss of a loved one».
[...]
1 Vd. Manning 1974, 74: «Because he was a teacher, Seneca's writing was designed not for the wise man, who had no need of instruction, but for the proficiens. As he writes to Serenus, 'ad imperfectos et mediocres et male sanos hic meus sermo pertinet, non ad sapientem ' (Sen. tranq. 11, 1)».
2 Littlewood 2015, 161.
3 Bartsch e Schiesaro 2009.
4 Gill 2009, 65-83.
5 Bartsch 2015, 187-98.
6 Edwards 1997, 23-28.
7 Ficca 2006, 329-35.
8 Traina 2000.
9 Ficca 2001
10 Traina 1987.
11 Armisen-Marchetti 1989.
12 Mazzoli 1991, 67-87.
13 Grimal 1991.
14 Setaioli 2000, 97-109.
15 Ronconi 1940, 3-32.
16 Motto 1970.
17 Vegetti 1989.
18 van Hoff 1990
19 Pasetti 2011.
20 Volk e Williams 2006.
21 Summers 1910.
22 Reynolds 1965.
23 Scarpat 1970.
24 Scarpat 2007.
25 Grimal 1953.
26 Grimal 1966.
27 Grimal 1969.
28 Dionigi 1983.
29 Setaioli 1988.
30 Vd. Sen. epist. 21, 3-6 [...] ”si gloria” inquit “tangeris, notiorem te epistulae meae facient quam omnia ista quae colis et propter quae coleris”. numquid ergo mentitus est? quis Idomenea nosset nisi Epicurus illum litteris suis incidisset? [.] quod Epicurus amico suo potuit promittere, hoc tibi promitto, Lucili: habebo apud posteros gratiam, possum mecum duratura nomina educere [.].
31 Vd. Sen. epist. 7, 11 egregie scribebat.
32 Vd. Sen. epist. 118, 1-3 [.] itaque in anticessum dabo nec faciam, quod Cicero, uir disertissimus, facere Atticum iubet, ut etiam " si rem nullam habebit, quod in buccam uenerit, scribat. numquam potest deesse, quod scribam, ut omnia illa, quae Ciceronis implent epistulas, transeam: quis candidatus laboret; quis alienis, quis suis uiribus pugnet [.] hoc est, mi Lucili, egregium, hoc securum ac liberum, nihil petere et tota fortunae comitia transire.
33 Vd. Cic. Fam. 5, 16.
34 Villa 1997, 141-142 e Lana 1997, 203.
35 Anche in epist. 29 Lucilio sembra conoscerlo, non solo perché chiamato Marcellinus noster ma anche perché il racconto senecano sembra omettere numerosi dettagli, quasi non fosse indispensabile una completa descrizione della situazione e della relativa condizione (data la possibile conoscenza di Lucilio).
36 Vd. Schafer 2011, 43.
37 Sembrano qui riecheggiare la prosopopea della Natura (eadem sunt omnia semper. eadem tamen omnia restant) di Lucr. 3, 945; 947, la strenua inertia di Hor. epist. 1, 11 ed il quousque eadem? di Sen. tranq. 2, 15.
38 Summers 1910, 244.
39 A tal proposito si veda Inwood 2007, 178 che, riferendosi all’impostazione retorica di epist. 66, afferma: «If there is rhetorical excess here, excess which almost violates Stoic doctrine, it is the excess characteristic of the consolatory genre. And if there is rhetorical excess, we should also bear in mind Seneca’s life-long weakness for bold and dramatic overstatement».
40 Schafer 2011, 39.
41 A proposito del rapporto consolatio / obiurgatio, presente anche nell’ epist. 99, si veda Schafer 2011, 43, n.35.
42 Un interessante esempio di risposta ad una troppo stoica consolatio è l’epistola 11, 23 dell’umanista Coluccio Salutati a Francesco Zabarella, che aveva tentato di consolarlo per la morte del figlio Pietro. Si veda, a tal proposito, l’ottimo lavoro di McClure 2014, 95.
43 Scarpat 2007.
44 In tal caso Seneca si avvicinerebbe molto al III libro del De rerum natura lucreziano.
45 Diog. Laert. 7, 130.
46 Affine, quest’ultima alla visione (quasi leopardiana come nel Dialogo di Plotino e Porfirio) di epist. 104 et interdum, etiam si premunt causae, spiritus in honorem suorum uel cum tormento reuocandus et in ipso ore retinendus est, cum bono uiro uiuendum sit non quamdiu iuuat sed quamdiu oportet: ille qui non uxorem, non amicum tanti putat ut diutius in uita commoretur, qui perseuerabit mori, delicatus est [.]. ingentis animi est aliena causa ad uitam reuerti (§4) e della 78 saepe impetum cepi abrumpendae uitae: patris me indulgentissimi senectus retinuit [.]. aliquando enim et uiuere fortifer facere est (§1).
47 Cf. Sen. ira 3, 15 is aeger animo et suo uitio miser est, cui miserias finire secum licet [.] quocumque respexeris, ibi malorum finis est. uides illum praecipitem locum? illac ad libertatem descenditur. uides illud mare, illud flumen, illum puteum? libertas illic in imo sedet. uides illam arborem breuem retorridam infelicem? pendet inde libertas. uides iugulum tuum, guttur tuum, cor tuum? effugia seruitutis sunt. nimis tibi operosos exitus monstro et multum animi ac roboris exigentes? quaeris quod sit ad libertatem iter? quaelibet in corpore tuo uena.
48 Sen. breu. 7.3.
49 Ker 2009, 88.
50 Ker 2009, 91-92.
51 Manning 1974, 76.
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